lunedì 19 novembre 2018

L'anima come specchio vivente sull'Universo


Di fronte a quello specchio era tutto così strano. Lo faceva spesso, guardarsi, imparare a conoscersi. Si avvicinava così tanto da guardarsi negli occhi e trovare qualcosa in quelle sue pupille, leggermente sottili perché non proprio contente di ammirare quella tristezza. Si ripudiava, lo stesso riflesso. Chiude gli occhi, li riapre, li richiude: erano di un verde bottiglia che via via diventava di uno smeraldo a causa della lucentezza e dal rossore di entrambi gli sclera, che accompagnavano il formarsi di piccole gocce di lacrime lungo la parete oculare. Queste si accumulavano con una prepotenza tale da sospendere qualsiasi azione autonoma come il respirare, per poi tutte insieme scivolare rigando delle guance paonazze, vibranti e sensibili. Gli occhi si guardavano ancora, nel silenzio più tombale, si scrutavano per trovare il coraggio di fare la prima mossa. Una mossa che non arrivò, rimanendo entrambi immobili lì a guardarsi in quel riflesso, per secondi, minuti. L’unico movimento che avveniva in quel frangente era lo schiantarsi di quelle lacrime amare sul maglione, macchiandolo più e più volte.


   Dopo l’ennesimo cambio di prospettiva, chiuse gli occhi e si chiese quale dei due fosse il riflesso di chi, chi dei due odiava veramente osservarsi e chi dei due, in quel momento, desiderava essere soltanto un’immagine. Non erano più lo stesso riflesso, non più. Erano un’unica cosa, seppur distinta in due diverse fazioni: quella spirituale e quella corporale. Quegli occhi iniziarono a muoversi autonomamente, così come le smorfie delle labbra che non corrispondevano più ai suoi movimenti. Non quelli reali. La mente immaginava e viaggiava da sola, eppure lui era fisso lì a guardare un riflesso che non esisteva più. Il buio colpì la stanza, i suoi occhi sembravano spenti e senza luce. Cercava invano di aggrapparsi a qualcosa che non trovava, brancolava nel buio con il panico di chi, improvvisamente, perde la vista. Non vedeva più nulla, nemmeno più le sue mani, la sua ombra o qualcosa di reale. Dinanzi a lui il nero più oscuro e cupo, contornato da un silenzio tremendamente assordante. Dei passi, gentili ma sicuri, ad un ritmo lento si fecero udire in lontananza. Le sue orecchie funzionavano, pensò, quindi non era morto. Si fermò e cerco di captare quel suono, per capire da dove venisse, ma era ancora troppo flebile. Poi smise.
   «Ciao» una voce calda, sincera e sicura di sé si fece avanti. «Sono da questa parte.»
   Iniziò a guardarsi in giro ma non vedeva nulla, tranne l’assenza stessa della vista. Era intrappolato in un limbo senza luce e che non gli dava la possibilità di guardare.
   «Segui il suono, non ti affidare agli occhi. Segui l’emozione, non affidarti al tatto. Segui te stesso, non l’immagine di ciò che desideri.»
   Rimase impassibile per un attimo, fermo lì in un posto imprecisato di un luogo senza luce. «Non riesco… Non so come si… fa…» si rese conto di riuscire a parlare, di potersi esprimere.
   «Respira. Prenditi un minuto di tempo. Tranquillizzati», accennò ancora la voce calda, che però non aveva un corpo.
   Decise di fare dei profondi respiri e rimase immobile lì. Per un momento sentì solo il rumore del silenzio, che condizionava anche il suo respiro, che per un attimo pensò di non percepire. Non c’era aria in quel luogo, non aveva realmente bisogno di respirare, di guardare o ascoltare. Si sentì perso, nel vuoto, in un posto che non era reale, ma cosa poteva mai essere? Era stranamente calmo, come se le emozioni non esistessero più. Non sapeva più identificarsi nella paura, nel dolore, nella vita: non sapeva come spiegarsi questa assenza di forza, di quel calore che abbiamo tutti noi all’interno del nostro corpo. Non sentiva nulla, nemmeno il nulla stesso e per un attimo pensò a quanto fosse in realtà magnifica quella sensazione: non fa male.
   «Non sentirti invincibile, non lo sei», disse la voce di quell’uomo, ancora una volta. «So perfettamente cosa pensi, cosa senti, anche se in realtà non puoi pensare e, soprattutto, non puoi sentire», spiegò con un tono tranquillo e flebile.
   «Sono mor…» chiese con voce spezzata.
   «Non esattamente. Non sei morto», lo interruppe quella voce con tono deciso. «Non posso che guidarti, ma se non fai ciò che ho detto prima, non possiamo proseguire» fece con tono autoritario.
   «Cosa devo fare? Come devo fare?» la sua voce aveva un tono così rassegnato da sorprenderlo.
   «Segui il suono. Segui l’emozione. Segui te stesso» gli indicò nuovamente la voce, questa volta facendo uso dello stesso e identico tono di prima, quasi come se a parlare fosse un robot o una macchina, in grado di non riuscire realmente a parlare, ma soltanto ad esprimersi con delle frasi fatte e prestabilite. Oppure era semplicemente bravo.
   Si concentrò, respirando a pieni polmoni. In quel dato momento capì che non riusciva ad immaginare e a ricordare più nulla, né chi fosse, né perché si trovava lì. Non sentiva paura, non sentiva timore: era sospeso nell’incredulità, come se fosse essenza.
   «Eppure sei un corpo, non credi?» gli spiegò la Voce, come se riuscisse a dare una risposta ai suoi pensieri, anche se questi non esistevano più in quel luogo.
   «Non riesco, Voce» spezzò lui con un tono rassegnato. «Non capisco cosa intendi dire. Hai detto che qui non esiste nulla, né pensiero né emozione, né suoni né materia. Probabilmente non esistono neanche le nostre voci.»
   «Ti stai avvicinando» disse la Voce con un tono beffardo, quasi come se stesse sorridendo maliziosamente. «Prenditi il tempo che ti serve, tanto qui non esiste nemmeno quello» raggelò con un tono pacato.
   Si zittì e decise di non parlare. Si concentrò su sé stesso, cercando di ricordare cosa potesse aver dimenticato. Immagini gli entravano nella testa, una figura femminile, un bambino, stranamente insieme, ma erano confusi. Continuava a cercare quelle figure e ogni volta sentiva un calore improvviso, ma flebile. Il tempo passava, ma lui non lo percepiva, ormai non percepiva nemmeno più il suo essere. Per un attimo ha pensato di non esistere più, come se non fosse nulla: non sentiva il suo corpo, i suoni, la vita, il gusto, i ricordi, le emozioni. Sentiva solo questo ronzio che non riusciva a classificare: era un suo pensiero, era la sua essenza o cos’altro? Improvvisamente, muovendosi nel nulla, vide quest’aura lontana e decise di raggiungerla: per un attimo sentì di aver un corpo, delle gambe, di avere un passo. Si guardò in basso, per concretizzare l’idea di essere qualcosa, e cominciò a correre sempre più veloce verso quell’aura. Si avvicinò a tal punto da sentire quel suono sempre più forte, quasi mistico, che avvolgeva quelle fiamme di colore blu.
   «Sono io, la Voce. Ci sei riuscito. Posso rivelarmi ora» accennò quest’aura di fiamme blu, che con movimenti artistici e spettacolari si racchiuse in una figura antropomorfa e piena di luce.

   Tutta l’assenza di luce di quel luogo impervio diventò accecante e si illuminò, mostrando finalmente i corpi e il luogo dove si trovavano: un’enorme stanza vuota, con pareti tremendamente disastrate, con cui applicato un parato dal colore viola che sfociava in sfumature magenta.
   «Benvenuto. Complimenti per essere riuscito finalmente ad entrare qui, ce ne hai messo di tempo. Sei riuscito a sentire il suono. Il richiamo del tuo essere altro da te.» 
   La sua figura era familiare, aveva un pantalone nero attillato, con una camicia blu notte e un panciotto con le sfumature del pantalone, mentre la cravatta era di una sfumatura particolare: ricordava il colore della luna sotto alcuni raggi di luce, mentre tendenzialmente era di un nero corvino. Il suo viso era leggermente familiare, ma dei fasci di luce nera, oscura, continuavano a nascondergli gli occhi. Era elegante, slanciato, le mani in tasca.
   «Mi riconosci?» chiese con un tono di voce sottile, quasi triste.
   «No, non riesco a capire chi sei, ci conosciamo? Quanto ci ho messo ad entrare qui?» chiese il giovane, ancora incredibilmente sorpreso di essere reale, di vedere le sue mani, il suo corpo e soprattutto di sentire di nuovo il suo essere vivo, fatto di emozioni, di calore, di freddo. Era tornato umano, ma era una sensazione strana.
   «Lo scoprirai chi sono, tranquillo. Ci hai messo ventisette anni, circa», confermò senza problemi. «Seguimi se vuoi uscire da qui» continuò l’uomo girandosi e muovendosi verso l’altro lato della stanza, dove si trovava una porta.
   Lo seguì senza fiatare e si trovo dinanzi a questa porta fatta marrone chiaro nei contorni e tanti vetri opachi al centro, sei per la precisione. La spinse appena e si aprì, ritrovandosi in quella stessa stanza di prima, questa volta da solo. La figura ben vestita era scomparsa. Al centro ci trovò uno strano bambino, con un viso molto dolce ma triste. Era biondo, alto per la sua età, con gli occhi che erano coperti anch’essi da quella strana luce oscura.
   «Ciao piccolo, che ci fai qua?» chiese con voce delicata, cercando di non spaventarlo. «Ti sei perso anche tu qui dentro?» continuò su quel tono pacato, senza però risultati: il bambino gli urlò contro in maniera spaventosa, si dissolse in polvere nera e fu risucchiata dalla porta di prima, che si chiuse con un tremendo frastuono.
   Egli non capì che stesse succedendo, ma un forte bruciore lo colpì nel petto e si accasciò a terra: il suo cuore si era appena diviso in più parti, per poi cicatrizzarsi nuovamente un secondo dopo. Non era un dolore fisico, non poteva esserlo. Quel bambino cosa gli aveva appena causato? Non riusciva a spiegarselo. Decise quindi di alzarsi e di tornare nella stanza di prima, cercando di fare affidamento sulle poche forze che si ritrovava, ma si accorse che era decisamente debole e ferito. Dieci, cento, mille tagli gli sono comparsi sulle braccia, sulle gambe, sul collo, ma non era l’unico problema: dentro di sé sentiva l’odio di quel bambino, la sua enorme tristezza, la sua condanna. Voleva liberarsene, voleva uscire di lì. Corse verso la porta e si ritrovò nella stessa identica stanza, ancora una volta. Questa volta c’era una finestra e l’uomo, la Voce di prima, era lì di spalle ad osservare l’esterno.
   «Chi è quel ragazzino? Chi sei tu? Dove cavolo ci troviamo? Mi date una cazzo di spiegazione per una volta? Volete farmi capire che diavolo sta succedendo? Sto impazzendo» urlò il giovane con tutta la forza che aveva dentro di sé, così tanto che alcuni di quei tagli cominciarono a sanguinare, mentre i suoi occhi e cedevano con le lacrime a quelle sensazioni che il bambino gli aveva appena passato.
   «È un demone. Un essere malvagio. Non puoi combatterlo», disse l’uomo elegante, guardando ancora verso la finestra e tenendo le mani in tasca, come se niente fosse. 
   «E allora perché mi trovo qui? Che devo farci? Cosa sono queste sensazioni? Questi tagli? Mi avevi detto che in questo luogo non esisteva nulla, perché ora devo subire tutto questo?!» disse sprezzante il giovane alzando la voce, ancora condizionata da quel pianto fuori controllo.
   «Ci troviamo qui per una ragione…» disse una voce femminile, dietro di lui. Una voce delicata, bella, soave. Si girò e la vide, in tutta la sua bellezza, nei suoi capelli castani raccolti, con un viso dolce e illuminante, gli occhi un po’ rossi per un leggero pianto e un sorriso che, da solo, riusciva ad annullare tutte quelle sensazioni appena ricevute dal bambino.
   Rimase incantato, non riusciva a muoversi o a proferire parola. Lei lo guardava negli occhi, era l’unica in quel luogo che non li aveva coperti da quella strana luce oscura. Era immersa in una luce bianca scintillante e il suo vestito non era da meno. Rimasero lì immobili a guardarsi per troppo tempo, forse, ma non era mai abbastanza. Nella sua testa, di nuovo, immagini di una figura femminile che forse aveva riconosciuto. Era lei.
   «Chi sei tu, come ti chiami?» chiese il giovane, perso in quel sorriso fuori dal mondo.
   «Io sono…»

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