«No signor spaventapasseri, non ho alcun intenzione di
rovinarle la sua giornata di lavoro, sa, ho anche io delle innumerevoli cose da
fare» e così si concluse la particolare conversazione
di Cosmo. Tutto è iniziato dalle 3 del mattino, che non riusciva a dormire a
causa di una sporadica quanto viscerale tristezza, pensando al tremendo senso
di solitudine che affliggeva il proprio essere interiore; qualcuno che camminava
nella strada con enormi stivali, uccideva il silenzio che arieggiava in quella
stanza completamente priva di rumori. Cosmo sente precipitare qualcosa dentro
di lui, si alza di scatto e si poggia le mani sul viso per sentirsi ancora
pienamente se stesso, per poi addormentarsi improvvisamente. Incubi di una
straziante angoscia l’hanno accompagnato durante la notte del freddo
plenilunio, l’esofago otturato di paura e l’anima colpevolmente frammentata. Il
Mattino dopo il sole illuminava una stanza a tratti vuota, anche se non c'era
spazio per le innumerevoli cose, il ragazzo apre gli occhi e sospira, con una
naturalezza tale da sembrare sveglio con le sole palpebre abbracciate dolcemente.
Come sua abitudine, Cosmo trova nel soffitto il giusto antidolorifico, un
farmaco a volte pericoloso per le sue profondità, a tratti nostalgico, forse la
miglior cura per mali sconosciuti. «Chi sei
tu?» era la tenera voce interiore
dell'innocente protagonista «Sono il Cosmo..
credo» risponde con sporadica allusione al suo ego che
si sentiva, al contempo, l'imprevedibile complesso del momento. Il bianco
infinito mette in mostra le innumerevoli possibilità di pensiero, ma vi erano
solo punti interrogativi a volte anche astratti, colpevoli di tale mancanza di
senso. La figura lì presente però aveva un ché di interessante, era di
un'altezza media e dal sesso femminile, una figura retorica del dubbio
esistenziale, peculiarità di Cosmo, la cui paura era la fantomatica solitudine.
L'universo cambia la propria linearità diventando teneramente astratto, anche
se per tutti, era la pura e semplice normalità, non per Cosmo ovviamente, che
si vede costretto ad adattarsi ogni volta a questi improvvisi cambiamenti. «Perché a me?»
era la domanda che più affliggeva tale opera di ordinaria follia. Ecco il
prato, i corvi e la terra del grano, il signor spaventapasseri era impegnato
nel suo lavoro quotidiano, decisamente monotono e privo di senso, Cosmo lo
guarda con una certa invidia, di chi, come lui, sentiva il reale bisogno di
capire cosa fossero quei torbidi pensieri. Il signor spaventapasseri non
rispose e non si mosse a nessuna delle sue occhiate, quasi contemplava il
vuoto. No, guardava il mondo con altri occhi. «No
signor spaventapasseri, non ho alcun intenzione di rovinarle la sua giornata di
lavoro, sa, ho anche io delle innumerevoli cose da fare. Ho intenzione di
guardare il mondo, le persone e me stesso, ho intenzione di sentirmi di nuovo
vivo. Mi scusi signor spaventapasseri, non volevo disturbarla» con questa frase, si allontana dal campo
scomparendo nel buio che si avvinghiava dopo lo splendido tramonto. Cosmo era
l'impeccabile e incalcolabile senso di tutto, tenebroso, folle, sporadicamente
simpatico, sconosciuto, misterioso e particolarmente inverosimile, un'ombra.
Cosmo era tutto, Cosmo era il nulla.
L'alba si levò sull'isola del manicomio mentale,
nebbiosa e pallida, di un grigio molto simile all'alluminio; nel cielo
turbinavano enormi e possenti nuvole oscure. Cosmo si era da poco vestito e
aveva fatto colazione lampo mangiando un tenero e morbido pasticcino fatto in
casa, quando cominciò a piovere; uno spruzzo di pioggia divenne un terribile
temporale, che martellava il tetto e le finestre della sua abitazione. In lontananza, i tuoni rombavano in lunghi
quanto potenti boati che scuotevano il posto. «Non sarà facile attraversare
questo temporale» pensò tra se' e se' Cosmo, alquanto curioso di mettersi alla
prova come nel buio del giorno prima, di cui ricorda solo il favoloso tramonto
color rosso fuoco. Avvinghiato al suo lungo e nero mantello, vestito di calda lana
soffice e stivali di cuoio, s'incamminò all'esterno, sperando di trovare il
nulla, l'effimero e il paradossale di quella che lui definiva "Attimi di
vita". Il Saggio sedeva lungo una delle rocce laviche del posto, la sua
figura era pressoché inquietante; lungo mantello scuro che lo copriva in tutti
i punti del suo essere. Sembrava il tristo mietitore, gli mancava solo la falce
e qualche anima persa nei meandri dell'infinito trapasso. «Oh giovane Cosmo, dove
ti porta il sentiero questa volta?»
«Non esiste nessun sentiero, non esiste nessuna strada, non esiste nessun Cosmo»
Accigliato, il saggio ribatté «Il tuo nome è dovuto pur a qualcosa, devi scoprire dentro le viscere del tuo cosmo la pura realtà».
Un cenno con la testa e si allontanò, piano.
Continuò imperterrito attraverso la pioggia battente giù per i sentieri fra i boschi che costeggiavano i confini dell'isola, sperduta in un qualche continente sconosciuto ed inesistente facente parte del proprio cervello. Riuscendo a malapena a mettere un piede davanti all'altro in quella terra ormai inzuppata, il giovane continuò la ricerca di quella via d’uscita dal bianco infinito, ormai preso come un prigioniero. Immagini frammentarie di ricordi, momenti, sensazioni comparivano e scomparivano lungo il cammino, come se fossero allucinazioni, come miraggi attraverso la foschia che dopo attimi, li inghiottiva nel nulla. La pioggia, portata da un vento potente, gelido, lo schiaffeggiava facendogli perdere l'equilibrio ogni volta, ma il suo obiettivo era decisamente superiore in quel momento. Nulla lo fermava. Gli stivali affondavano nelle pozze e nei ruscelli che si formavano davanti a lui mentre percorreva il campo di grano del signor Spaventapasseri, che era sempre nella stessa e identica posizione, immobile, fermo e con il viso che mostrava lo stesso sguardo di sempre. Era l'unica cosa normale in quell'universo.
«Non esiste nessun sentiero, non esiste nessuna strada, non esiste nessun Cosmo»
Accigliato, il saggio ribatté «Il tuo nome è dovuto pur a qualcosa, devi scoprire dentro le viscere del tuo cosmo la pura realtà».
Un cenno con la testa e si allontanò, piano.
Continuò imperterrito attraverso la pioggia battente giù per i sentieri fra i boschi che costeggiavano i confini dell'isola, sperduta in un qualche continente sconosciuto ed inesistente facente parte del proprio cervello. Riuscendo a malapena a mettere un piede davanti all'altro in quella terra ormai inzuppata, il giovane continuò la ricerca di quella via d’uscita dal bianco infinito, ormai preso come un prigioniero. Immagini frammentarie di ricordi, momenti, sensazioni comparivano e scomparivano lungo il cammino, come se fossero allucinazioni, come miraggi attraverso la foschia che dopo attimi, li inghiottiva nel nulla. La pioggia, portata da un vento potente, gelido, lo schiaffeggiava facendogli perdere l'equilibrio ogni volta, ma il suo obiettivo era decisamente superiore in quel momento. Nulla lo fermava. Gli stivali affondavano nelle pozze e nei ruscelli che si formavano davanti a lui mentre percorreva il campo di grano del signor Spaventapasseri, che era sempre nella stessa e identica posizione, immobile, fermo e con il viso che mostrava lo stesso sguardo di sempre. Era l'unica cosa normale in quell'universo.
«Cosa rappresenta lei nella mia testa? Signor
Spaventapasseri, io le sto facendo una domanda seria e potrebbe quantomeno fare
un cenno!» Il signor Spaventapasseri
rimase immobile, nella sua tetra e inquietante forma.
«Sto cercando di capire chi sono in realtà, cosa mi turba e cosa
mi fa sentire così diverso da lei, che forse è la più intelligente e sicura
immagine di me. Lei non è altro che me, quello che ormai è rimasto bloccato in
questi torbidi e spietati meandri della mia.. Mi scusi signor Spaventapasseri,
nostra mente. La libererò, prima o poi, conti pure su di me..»
Si
affiancò a lui, seduto ad osservare il nulla. Per un attimo, solo per un
semplice istante, i suoi occhi si aprirono veramente e lì davanti a lui vide
una distesa di grano, tante speranze e innumerevoli possibilità. Benvenuto,
Cosmo, attento con quell’ascia, le stelle stanno urlando ad alta voce.
"La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un'infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni."
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