giovedì 22 novembre 2018

L’anima come specchio vivente sull’Uomo

Dinanzi ai suoi occhi c’era solo distruzione. Le pareti presero fuoco improvvisamente bruciando il parato che le copriva, passando lentamente da un viola scuro ad un nero carbone. Il fuoco era di colore azzurro e tendeva a fare maggiormente scena, pensò, in quanto il bruciarsi delle cose avveniva così lentamente da sembrare finto, nonostante il calore emesso dalle fiamme era soverchiante. La terra tremava e spaccava in due quel pavimento di legno sporco e ormai logoro dagli anni: il colore ingiallito e con non pochi aloni faceva presagire che lì ci fossero passati migliaia di scarpe, anche se si trattava di un luogo probabilmente inesistente. Sembrava la fine del mondo: le mura iniziavano a cedere, crollando su sé stesse, la finestra scoppiò improvvisamente in milioni di pezzi, con vetri che volavano ovunque a causa della smisurata potenza del vento, capace di spostare addirittura alcuni dei pochissimi mobili presenti. Il pavimento iniziava a fare spazio a delle vere e proprie crepe che continuavano ad allargarsi, mentre il calore delle fiamme stava iniziando a diventare soffocante. Attorno a lui, solo distruzione.

   «Devi andare», disse l’uomo elegante con la sua voce calma e tranquilla, comparendo al centro della stanza dal nulla e con un’aria spaventosamente sicura di sé. «Sarà qui a momenti.»
   Seguì il suo consiglio e corse verso la porta, senza guardare indietro, toccò appena la maniglia della porta che tutto ciò che c’era alle sue spalle scomparve nel nulla. Niente più distruzione, niente più fuoco, niente più quelle figure misteriose. Dinanzi a lui la stessa stanza, ancora integra ma sempre malandata. Al centro un divano di pelle nera, molto spazioso, con di fianco un lume la cui luce era una fiamma molto alta. La stanza era stranamente illuminata, nonostante non ci fosse la finestra a fare luce, ma soltanto quello strano lume: a primo acchito sembra una semplice lampada da lettura, ma che però invece della lampadina sfruttasse il fuoco, lo stesso fuoco azzurro che attimi prima bruciava quella stanza. Sentì il desiderio e il bisogno di sedersi su quel divano, anche se non soffriva nessun tipo di stanchezza. Intorno la stanza era sempre vuota, poco mobilio e appena qualche dipinto attaccato alle pareti, giusto per non rovinare la fantasia viola con sfumature magenta di quel parato, che, tuttavia con maggiore attenzione si poteva scorgere anche ad altre dal colore argento che rendevano il disegno decisamente più unico. Si sedette e constatò che fosse molto comodo, decidendo successivamente di sprofondarci con tutta la pesantezza del suo corpo. Sospirò e guardò il soffitto, perdendosi in quel bianco un po’ ingiallito.
 
 «Chi sei tu, come ti chiami?»
   «Io sono… L’angelo», disse la donna lucente con quella sua voce soave e delicata. «Siamo qui per una ragione precisa…», continuò prendendosi appena una pausa tra una frase e l’altra.
   «Come, un angelo? Qual è questa ragione precisa?» chiese il giovane osservando come la frangetta le coprisse leggermente quei suoi splendidi occhi.
   «Non posso dirti nulla ora, dovrai capirlo da solo. Ma sono sicura ci riuscirai, sei forte e ne sei sempre uscito. Ce la farai anche questa volta», rispose lei, mostrando i suoi occhi tremanti e lucidi. «Devi solo crederci.»
   Scomparve tra le sue braccia e al suo posto tantissime farfalle blu presero a volare intorno al suo viso, con una che si posò anche solo per un attimo sulle labbra, per poi scomparire nel nulla. Era la donna dei suoi pensieri più lontani, la riconosceva dalla luce che emetteva ogni volta. Ma non era solo quello, era anche più, ma non riusciva a capire dove e soprattutto quando: la sua mente era ancora vittima di quel luogo infernale.
   «E’ un po’ che non venivi a farci visita», disse una voce estremamente calda che colse la sua attenzione e lo riportò alla realtà. Si trovava infatti ancora su quel divano, senza sapere il motivo per il quale dovesse trovarsi lì e, soprattutto senza concepire il tempo che passasse. Si girò intorno ma non vide nessuno, tutto ad un tratto, improvvisamente, un gatto gli balzò sulle ginocchia, facendolo sussultare animatamente.
   «Oh cavolo gattino, mi hai fatto una paura terribile… Che ci fai qui? Da dove sei uscito?» disse mentre tentò di accarezzargli il manto di colore beige con leggere sfumature rosse.
   «Non è importante da dove sono uscito, ma bensì che io ti abbia trovato» rispose il gatto, cogliendo la sua attenzione che si mostrò come una smorfia di quasi terrore sulla sua faccia, quasi per indicare la conferma che prima non avesse fantasticato, ma bensì che l’avesse veramente sentito parlare.
   «Tu parli? Com’è possibile?», rispose deglutendo in modo quasi rumoroso.
   Il gatto iniziò a strusciarsi su di lui, soprattutto vicino al viso coperto di barba, poi iniziò a fare le fusa e a cercarsi forzatamente una carezza dalle sue mani. Lo accarezzò diverse volte, notando come gli piacesse e nemmeno poco: chiudeva gli occhi e si alzava sulle gambe posteriori per spingersi contro la sua mano. Sembrava che quel gatto desiderasse avere delle coccole da lui, quasi come se lo stesse aspettando da una vita intera. Ad un certo punto, dopo essersi goduto qualche minuto di dolcezza, il gatto si mise seduto sulle sue gambe al suo fianco, sul divano.
   «Qui tutto e possibile. Siamo in un posto dove è possibile di tutto. Io parlo, vivo, respiro grazie a questo luogo, dove altrimenti non avrei potuto» spiegò il gatto, accompagnando il discorso con uno sbadiglio degno della più totale stanchezza.
   «Siamo nell’aldilà? Paradiso o inferno?» si chiese il giovane, facendo riferimento alle parole dell’uomo elegante che gli ha spiegato di come quel bambino fosse un demone, mentre la donna lucente un angelo.
   «Quello che tu vorrai. Dipende tutto da te. Devi ricordare e superare questo luogo. Devi uscire da qui» risposte il gatto, spostando la coda da destra a sinistra con totale leggerezza.
   «Ma non so cosa fare, cosa ricordare e soprattutto come farlo! Ho paura di rimanere qui per sempre, nella totale indifferenza delle figure che sto incontrando. Mi dite tutti la stessa cosa, che devo fare tutto da solo, ma non so da dove iniziare! Ti prego gatto, aiutami, almeno tu!» e la sua voce si alzò di tono e cambiò anche suono, facendo notare di come un groppo in gola l’avesse accompagnato per tutto il discorso. Però poi continuò. «Tu, almeno, puoi dirmi come ti chiami?».
   Il gatto rimase impassibile dinanzi a quella che poteva definirsi una tranquilla sfuriata, anzi addirittura sbadigliò ancora e iniziò a socchiudere gli occhi, mentre con le unghie tentò di impastare sul divano. Si stava rilassando e a momenti sarebbe caduto su un lato per dormire, facendo innalzare non poco la rabbia del giovane ragazzo, che quasi immobile, continuava a fissarlo.
   «Leggi la targhetta che ho al collo», avanzò il gatto, appena dopo un sospiro.
   Si avvicinò al gatto, e con le nocche toccò il suo morbidissimo pelo beige. Prese la targhetta e lesse una semplice lettera, una “M”, che di certo non significava nulla in quel momento. La girò per vedere se ci fosse scritto qualcosa dietro, ma l’unica cosa che poté notare furono alcuni graffi: si trattava sicuramente di una vecchia targhetta, vecchia di anni. Iniziò quindi a chiedersi chi fosse quel gatto, del perché si trovasse lì e soprattutto da quanti anni fosse presente in quel luogo. La guardò ancora una volta e i suoi occhi si accesero, così decise di osservarla meglio e concentrarsi sopra. Nella sua mente iniziarono a comparire immagini familiari: due mani di bambino che accarezzavano quello stesso gatto beige, fermo lì su una sedia a sbadigliare e che di lì a poco si sarebbe guadagnato un ciondolo.
   «Ecco a te, ora sei ufficialmente il gatto della nostra casa!» disse il bambino con totale entusiasmo che coinvolse anche quel gatto, quasi sorridente che si strusciò lungo il braccio.
   L’immagine nella sua mente terminò e si ritrovo di nuovo in quel luogo, con quel gatto davanti che lo guardava esattamente come nelle immagini guardava quel bambino.
   «Una M, cosa significa Gatto? Ti chiami semplicemente M?» chiese, consapevole che la risposta sarebbe stato tanto vaga da non capirci nulla ancora una volta.
   «No, ho un nome completo, ma che non posso dirti. Dovrai per forza ricordarlo da solo. La M cosa ti ricorda, giovane?» chiese il felino iniziando a lavarsi le zampe e il viso.
   «Mamma, la M mi ricorda soltanto la parola Mamma, ma non credo significhi qualcosa…» spiegò il giovane ragazzo in preda ai dubbi e alla concentrazione. «Non sei mia madre, vero?» disse con un tono dubbioso e spaventato.
   Il gatto non avanzò parola, ma si bloccò per un attimo e iniziò a guardarlo insistentemente, in modo quasi inquietante. I suoi occhi cambiarono, da quel nocciola che rendeva le pupille così piene e calde, si passò ad una chiusura quasi totale, una fessura surreale e che, in quel dato momento, non facesse immaginare nulla di positivo. Si stiracchiò e con un balzo scese dal divano, avvicinandosi ad una porta che, fino a quel momento, non c’era mai stata. Salì sul mobile più vicino e iniziò a lavarsi di nuovo le zampe, non curandosi del giovane ragazzo che lo guardava insistentemente per capire cosa gli stesse dicendo. Capì che quella porta avrebbe portato da qualche parte, ma non sapeva dove. Si avvicinò, diede un’occhiata veloce al gatto e aprì, catapultandosi in un luogo completamente nuovo. La porta si chiuse con un particolare frastuono e il gatto rimase lì ad osservare la scena. Attorno al felino iniziò a levarsi della polverina bianca lucente e con uno sbadiglio così tanto desiderato, accompagnato da un mezzo sorriso finale, capì che il suo compito era ormai terminato. Si dissolse con l’immagine di quelle mani da bambino che lo accarezzavano e gli legavano quel ciondolo intorno al collo. La stanza era ormai vuota, il rumore del silenzio sembrava dare voce a quelle pareti così insignificanti. Il mobilio era l’unico protagonista di quella stanza, mentre l’unico movimento era dettato dal vento che spostava leggermente quelle tende viola sopra la finestra, comparsa dal nulla. Era cambiata ancora. Improvvisamente.
   Un urlo agghiacciante.




L’aria era rarefatta. Una sottile nebbiolina era presente in quella stanza. Le pareti non erano del tutto sane, ma continuavano a reggersi in piedi. La finestra che dava all’esterno, in realtà, non mostrava nulla di particolare, se non il vuoto totale, dato dalla luce incredibilmente accecante. L’uomo elegante era in piedi dinanzi alla finestra, amava osservare l’esterno. Aveva le braccia piegate all’indietro con le mani che si stringevano, a gambe larghe, come se stesse aspettando qualcosa. Una smorfia lungo il labbro inferiore e un movimento degli occhi. Aveva percepito la sua presenza.
   «Lui non ricorda chi sono…» era l’Angelo lucente, la donna bellissima. «Significa che mi odia ancora, vero?», chiese con la voce tremante, quasi spezzata.
   L’uomo elegante si girò in modo delicato. Aveva dalla sua un fascino particolare, perché sicuro di sé. La guardò negli occhi e anche i suoi iniziarono a tremare. «Non ti ha mai odiato, Angelo» disse con naturalezza e pacatezza. «Non potrebbe mai odiarti.»
   «Ha trovato il ciondolo, la lettera. È vicino…» disse in preda a qualche timore, un groppo in gola che continuava a darle fastidio.
   L’Angelo non si controllò del tutto, e senza fare smorfie o altri movimenti, fece scivolare una lacrima sul suo bellissimo viso, rigandolo in due parti. Il groppo in gola iniziò a farsi sentire nuovamente, ma riuscì a deglutire appena in tempo per bloccarlo. Rimase ferma lì, esattamente dov’era: non aveva la forza di muoversi perché era ancora del tutto scossa e fuori controllo. L’uomo elegante si avvicinò a lei con dolcezza e le asciugò la lacrima con il pollice, mentre il restante della mano l’accarezzava dietro l’orecchio. La guardò intensamente negli occhi, senza staccare lo sguardo. I loro occhi iniziarono a tremare, le pupille si allargarono così tanto da capire entrambi che ammirarsi era la cosa più bella che potesse esserci in quel momento e forse per sempre. L’accarezzò ancora in viso e le diede un bacio sulla fronte, cosa che avrà fatto tante volte nella sua vita, visto il riflesso condizionato di lei di lasciarsi baciare e abbandonarsi al suo petto. Si strinserò così forte che i vestiti per poco si riducevano a brandelli. Lui si avvicinò al suo orecchio per sussurrargli delle parole, lei chiuse gli occhi per godersele a pieno.
   «Sei l’unica che ha riconosciuto…» la sua voce diventò dolcissima e bassa improvvisamente, ma sempre molto calda e rassicurante.
   In preda ai brividi lungo la schiena, lei si strinse a lui ancor di più, abbandonandosi completamente al suo calore e al suo affetto. Rimasero così a lungo, dondolando leggermente in segno di dolcezza. Poi si guardarono ancora e si baciarono, come solo loro sapevano fare. Come solo loro avrebbero potuto fare.

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